Concorsi

1°. Come preparare un autentico Big Mac – Fabio Riccardi

di Fabio Riccardi

Ingredienti: un panino al sesamo, salsa Big Mac, una cipolla tritata, tre foglie di lattuga tritata, una fetta di formaggio, due hamburger, due fette di cetriolini ed… ops, dovevo inventare un racconto? Lo avrei fatto, ma questo foglio mi serve per segnare le ricette. Se potessi scrivere, beh, vorrei usare una sintassi densa e nuda, vene isteriche di fragola come quelle nel dessert, ma lo specchio che riflette ogni mattina le mie occhiaie rivela solo un corpo di polistirolo sul quale banchetto cercando vita. Devo pensare a darmi da fare con la friggitrice e smetterla di intuire riflessi d’argento in brandelli di unta stagnola. Cerco di rattoppare la mia carta straccia quando posso, nelle ore più calme, vomitando il cuore sul foglio spengo sigarette sulle caviglie, schiaffi di levatrice o piccoli falò nel silenzio. Niente da fare. Guardiamo in faccia alla realtà: le mie parole sono inutili correnti nell’abisso sordomuto di un distributore di bibite. Così lascio perdere e di notte finisco per vagare tra le vie della mia città, in equilibrio sulla coda di un gatto, attendendo l’impulso giusto che smuova qualcosa, calpestando arcobaleni al neon riflessi su pozzanghere velenose d’olio e sale. Lungo la strada, ad ogni passo, una maionese di luce scende dai lampioni e si spalma dentro profonde rughe notturne, dove qualche ragazzino gioca a fare la rissa abbandonato a sé stesso. Alzo gli occhi, un sax sta suonando tra le palpebre cadenti di un palazzo avido di sonno. Mi siedo sul marciapiede ed ascolto in silenzio, raccolgo dall’asfalto un mozzicone bianco ancora livido di rossetto come un assorbente usato. E’ una musica nervosa, agile, piena… sbatte pallida sulla ringhiera, si incaglia sullo stendi panni; mi attraversa inseguita alle spalle da un vento moschicida per poi morire tra le grate fognarie. Un flebile messaggio d’aiuto di uno dei tanti rifugiati dentro la riserva urbana. Mi alzo, cammino verso l’ingresso e scopro che il portone è aperto, che fare? Decido di salire cauto le scale, un odore clinico mi investe mentre sono alla ricerca della sua porta. Da sotto gli usci serrati a doppia mandata filtra il ronzio fantasma di televisioni sempre accese, le risate gregarie mi ingannano e mi mettono i brividi, vengono spazzate via da fischi ed ovazioni elettroniche, sembrano reali, impegnate in una comunicazione vertiginosamente clandestina. Appena mi accorgo di essere vicino alla meta mi inginocchio, sbircio dalla toppa. E vedo LEI: una bella ragazza dalle labbra socchiuse, un filo di matita colorato che sfida la rigida geometria della stanza. Neppure il tempo di rendermene conto ed il suo sax si spegne di colpo, come se si fosse accorta della mia presenza dietro l’ingresso. Tremo, provo a resistere, riesco a scorgerla appoggiata ad un tavolino nero sporco di cenere, c’è una bottiglia vuota rovesciata sul pavimento ed un leone che si fa pettine tra i suoi capelli: così mi appare il suo indice, mentre si aggiusta una ciocca sfuggita sul capo che scopro essere rasato da un lato. Un colpo al cuore! mi arriva addosso come uno strappo disperato d’ingenuità. Posa la sua appendice d’ottone, china la testa dentro la palude di una tazza di caffè e sfugge dal mio orizzonte visivo. Porgo prontamente l’orecchio continuando a sentirne i passi… che si stia avvicinando? Mi sento sciocco nel rimanere rannicchiato a pochi centimetri da lei, vorrei reagire ma appena sento le sue dita muoversi agili sullo spioncino mi blocco, provo ad immaginarle, confidenziali come le note a margine dei suoi pentagrammi, decise come i tasti su cui si esercita: è tutta una questione di diteggiatura, di equilibrio, il mio rispetto al suo per poter continuare a nascondermi. La sento occhiolare in direzione del pianerottolo, che mi abbia individuato? Le sue dita scivolano verso il basso… ho il terrore di sentire la chiave farsi strada nel mio stomaco facendo sobbalzare l’imposta. Invece niente. Eppure mi pare di avvertirla ancora più vicina, come fosse davanti a me, deve essere così: siamo divisi da qualcosa di immaginario più che un elemento reale. «Non credere mai di essere altro che ciò che potrebbe sembrare ad altri che ciò che eri o avresti potuto essere non fosse altro che ciò che sei stata che sarebbe sembrato loro essere altro…» ha una voce leggera «…guarda che sto leggendo per te!» e sta davvero leggendo per me… il tempo di realizzarlo e non posso che sentirmi rimpicciolire fino a ritrovarmi microscopico dalla vergogna; così amabilmente scoperto indietreggio velocemente dalla porta, sguscio come una lucertola, cado su me stesso pancia all’aria rischiando di rotolare giù di pianerottolo in pianerottolo… mi aggrappo al buco della serratura per miracolo, lo risalgo con fatica e mi ritrovo a fare l’equilibrista sul gambo della chiave… NOOO NON APRIRE PROPRIO ORA! Mi siedo a cavallo della mappa: il suo occhio mi osserva. Sono grande quanto un’oncia, ma che dico… una sua ciglia! potrei usarle come piume se solo fossi vanitoso. Si rialza e le vibrazioni mi fanno sobbalzare, confondo l’universo con l’impronta di un suo piede. Mi guarda piccolo piccolo come sono ora, mentre provo a sporgermi verso lei, reggendomi alla piastra magnetica. Riprende tra le mani il suo sax, abbozza un notturno di Chopin, opera 9, numero 2: la guardo suonare nel riflesso delle candele alte come guglie di fuoco e so che potrei bruciare se solo decidesse di prendermi per la collottola e lasciarmi cadere su una di loro. Mi chiede se voglio fumare, ma se accettassi finirei intossicato da una coltre di fumo, mi chiede se voglio bere del vino, ma se accettassi potrei affogare, mi chiede se voglio fare l’amore… ed improvvisamente scaglia via il suo sax. Senza alcun preavviso. Un colpo secco contro la porta ed io, che sono ancora a cavalcioni sulla toppa, sbatto la testa contro la maniglia con forza, scivolo colpendo con le ginocchia lo zerbino e rialzandomi goffo come una giraffa corro giù veloce lungo le scale, scendendole due gradini alla volta; mi fermo quando sono ormai fuori dal portone. Un gruppo di ragazzini da lontano mi osserva con sguardo sordo. «E’ un’ora che abbiamo ordinato!…» chiosano con un fare volgare e sprezzante. E’ il turno peggiore, quello notturno, e non ho avuto ancora il tempo di fumare una sigaretta. La ragazza dell’ultima ordinazione ha chiuso la custodia di legno del suo sax, un colpo secco ed un microscopico giro di chiave al lucchetto. Non ho potuto fare altro che sbirciare il suo strumento sbattuto dentro quella rigida geometria da viaggio, e prima che potessi rivolgerle la parola era già uscita dal locale, portandosi via tutto il suo mondo senza che me ne rendessi conto. Le avevo pulito il tavolino sporco ancora di cenere dai precedenti avventori, cercando di evitarle l’odore clinico del detergente e raccolto la bottiglia d’acqua che aveva rovesciato sul pavimento: neppure se ne era accorta, intenta com’era a far ruggire le sue mani tra i capelli. Giusto un sorriso, così nervoso, agile e pieno quando mi sono sporto verso lei apparecchiandole la tovaglietta alla quale mi appigliavo con la speranza di poterle parlare. Avrei voluto prenderla e portarla via per mano, imbandire una tavola per noi con vino e candele, ma non ho potuto fare altro che osservarla infilare la testa dentro la palude di una tazza di caffè mentre rischiavo di mandare a fuoco la cucina. Era sola e teneva tra le mani un libro: Alice nel paese delle meraviglie. Avrei voluto sentirla leggere, registrare nella mente almeno la sua voce ed invece, ingarbugliata com’era nel caos di risate posticce, fischi ed ovazioni dai tavoli, l’ho appena percepita in tutta la sua leggerezza chiedermi il conto. Devo pensare a darmi da fare con la friggitrice e smetterla di intuire riflessi d’argento in brandelli di unta stagnola. Ora ho un’ altro ordine: menù 9, tavolo 2. Ciao.

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