Sull’orlo del precipizio
Sul tavolo delle politica internazionale è questa la notizia del momento: l’Iran ha sferrato il suo primo attacco, parte dell’operazione ‘Soleimani Martire’, contro le basi di al-Asad e Erbil in Iraq, dove stazionavano militari americani e alleati. Il bilancio provvisorio secondo il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica sarebbe di 80 morti e 200 feriti. Sempre secondo i Guardiani della Rivoluzione, o Pasdaran – un organo militare istituito in Iran dopo la rivoluzione islamica del 1979 – almeno 15 missili hanno colpito le basi statunitensi e nessuno è stato intercettato dall’esercito americano; riferiscono inoltre che 104 obiettivi degli Usa sono sotto il mirino iraniano, pronto a mobilitarsi in caso di ostili mosse americane.
Fa riferimento all’art. 51 della Carta dell’Onu il ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif ed in particolare alla reazione prevista di fronte a un attacco terroristico straniero, come è appunto considerato l’omicidio di Soleimani. È reazione che non si è fatta attendere, ma che non soddisfa le minacce di azioni ancora più devastanti dopo l’uccisione avvenuta il 3 Gennaio su ordine del presidente americano Donald Trump. Operazione certosina, quella iraniana, che ha voluto ribattere le lancette sull’1.20, lo stesso orario dell’attacco americano al generale.
Tensioni altissime su uno scenario che ricalca e riprende vecchie scintille mai spente: per definirne ragioni politiche, economiche e culturali si dovrebbe andare indietro fino agli anni ’50, quando con il Patto di Baghdad, sottoscritto da Pakistan, Iran, Iraq, Turchia e Regno Unito e poco dopo USA (che non divenne però membro effettivo) si costituiva un primo nucleo in funzione anticomunista, nel quale germogliavano anche altre questioni meno formali ma più evidenti: il controllo che le potenze occidentali volevano ottenere in Medio Oriente.
Con un salto di più di vent’anni e la fuoriuscita dell’Iran e dell’Iraq già negli anni ‘60 e ‘70 da questo patto, è quasi scontato ricordare come la politica estera americana abbia spinto sull’affermazione e il rafforzamento di quelle che erano e sono le fazioni sunnite e sciite dell’Islam e dei Paesi Arabi, non tenendo conto delle possibili conseguenze rivoltose che invece si sono manifestate a gran voce.
Uno dei più grandi analisti dell’autorevole giornale mediorientale Haaretz, Anshel Pfeffer, evidenzia il fatto che dal conflitto Iran – Iraq degli anni ‘80 in poi, la strategia irachena è stata quella di evitare un altro conflitto in campo aperto, ma ora che lo stratega di punta non c’è più diventa complicato fare previsioni sulle risposte ulteriori dell’Iran.(https://www.corriere.it/esteri/20_gennaio_04/usa-iran-ma-trump-ha-piano-4-domande-chiave-l-uccisione-soleimani-0f35ae90-2ec1-11ea-838c-ac55de770e3c.shtml )
D’altra
parte, qual è la strategia di Trump?
Il 43%
degli americani crede a quella che è stata la motivazione ufficiale,
ovvero, secondo l’intelligence Usa, che l’Iran si stesse
preparando ad attaccare in risposta all’uccisione di militari
filo-iraniani da parte di droni americani. Alcuni
democratici credono che sia un’operazione volta a distogliere
l’attenzione dall’impeachment di Donald Trump, mentre la tesi più
caldeggiata da alcuni studiosi è che sia una strategia del
segretario di Stato Mike Pompeo che, assieme ad Israele, vuole
mettere fuori gioco la politica di espansione regionale in
Medioriente.
Non è un mistero che l’Iran abbia interessi che superano i confini nazionali, come dimostra il recente accordo per lo status del Mar Caspio siglato con Russia, Kazakistan, Turkmenistan e Azerbaigian.
Theran
è una capitale strategica sotto diversi punti di vista, primo dei
quali la sua posizione vantaggiosa per quanto riguarda il trasporto
dell’energia: l’Iran è medaglia di legno per le riserve di
petrolio, dopo Venezuela, Arabia Saudita e Canada e seconda al mondo
per riserve di gas naturale (15,8%). Nel 2008, l’Iran ha istituito
la International Oil
Bourse di Kish, ossia
la prima borsa valori che permette la compravendita di petrolio in
valute diverse dal dollaro Usa, esempio poi seguito da Russia e
Cina.
La premessa per la fine
del petroldollaro è
reale e preoccupante, dato che la domanda di dollari fino ad ora è
stata alimentata dal fatto di essere indispensabile per la
compravendita di idrocarburi.
E’ venuto meno anche l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto nel 2015 a Vienna e firmato da Iran, Unione Europea, Cina, Francia, Russia, Regno Unito, e Stati Uniti. L’8 Maggio 2018 gli Stati Uniti hanno annunciato l’uscita unilaterale dall’accordo, invitando l’Iran a ritirarsi dalla Siria di Al-Assad che ha in sé basi di supporto logistico e militare per la milizia sciita libanese Hezbollah, ritenuta un’organizzazione terroristica da Israele e Usa.
Pochi giorni fa è iniziata la ripresa dell’arricchimento dell’uranio che proseguirà secondo fonti iraniane “in base alle esigenze tecniche”.
Ed è ancora il pensiero del giornalista Pfeffer che riassume i profili dei due protagonisti della scena: «Un presidente vanaglorioso e una leadership iraniana che ha perso il suo esponente più saggio — entrambi in lotta per sopravvivere — si affrontano sull’orlo del precipizio».