Cultura

Bosnia, mon amour : Tra le ceneri – e la rinascita – di una cultura

di Irene Doda

Dove muore l’Europa

Delle sei repubbliche che componevano la Jugoslavia fino alla sua dissoluzione (1991) la Bosnia è certamente la più culturalmente e politicamente controversa: multietnica e contesa, amata e odiata. E infine, spartita. Divisa – nei territori e nella memoria – per volontà dei più potenti e prepotenti vicini, la Serbia di Milosevic e la Croazia di Tudjiman, con la silenziosa benedizione dell’Occidente.
Esecuzioni collettive, deportazioni, profughi, città in rovina: fino ad arrivare a quell’entità fantasmagorica che si  pensava, dopo il 1945, di non dover più invocare: il genocidio. Quello di Bosnia fu uno sterminio di massa, umano e  culturale: si è cercato di annientare una centenaria tradizione di convivenza tra religioni ed etnie – musulmani, serbi di  religione cristiano-ortodossa, croati cattolici, ebrei. La vittima più illustre dei massacri degli anni 1992-1996 è  stata proprio la cultura: la cultura europea, l’idea di pace e tolleranza su cui tuttora in si pretende di  voler costruire l’unità del vecchio continente.

Il mosaico di cristallo

Ci sono due immagini che mi porto dietro dal mio ultimo viaggio in Bosnia. La prima: è una giornata piovosa, sono da poco scesa dall’ autobus notturno Belgrado-Sarajevo. È mattina presto. Mentre aspetto che la camera dell’ostello dove ho lasciato lo zaino si liberi, decido di passare sul lungo fiume per dare un’occhiata alla “nuova” Biblioteca Nazionale. È un edificio squadrato e solido, sulle rive della Milyatka: stile moresco, righe gialle e arancioni. Non so perché, ma nei miei ricordi si confonde perfettamente con il colore livido del fiume e del cielo.

Cosa è successo all’edificio della Vijecnica, prima municipio cittadino e poi, dal dopoguerra, Biblioteca Nazionale, da sempre luogo di ritrovo e punto di riferimento per gli abitanti della città? È stata anche essa vittima di quel gigantesco omicidio culturale che fu la guerra di Bosnia. La notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 fu raggiunta da proiettili incendiari provenienti dalle postazioni serbe sulle montagne che circondano la città. La mattina, svegliandosi, gli abitanti hanno visto in fiamme l’edificio, ben consapevoli di quello che si stava consumando in quel fuoco: quasi due milioni di libri, periodici, fotografie e documenti. La memoria della Gerusalemme d’Europa veniva inghiottita dalle bombe dei criminali. Solo 200.000 testi furono portati in salvo.

Biblioteca Nazionale di Sarajevo

Il 9 maggio 2014 sono terminati i lavori di ristrutturazione della Vijecnica. Nel salone d’ingresso dei pannelli esplicativi raccontano la storia dell’incendio e dei complessi progetti di restauro durati 22 anni. Sotto il portico davanti l’entrata dormono pacifici quattro cani randagi. Sopra le loro teste capeggia una targa bianca: “On this place, serbian criminals in the night of 25th- 26th august 1992, set on fire National and University Library of Bosnia and Herzegovina. Over 2 million books, periodicals and documents vanished in the flame. Do not forget. Remember, and warn!”.
Devo rileggere un paio di volte ancora per credere ai miei occhi. A Sarajevo, nel centro e nel crocevia delle quattro culture, su quella targa c’è scritto serbi. Non sono solo criminali, sono appartenenti a un’etnia specifica: i serbi di Bosnia. Quel marmo bianco è un altro segno tangibile della vittoria dell’idea etnica, che ha distrutto il fragile caleidoscopio di Sarajevo tanto quanto le granate dei cecchini. “Sarajevo contiene il mondo, come un piccola palla di cristallo” scriveva nel 1994 l’autore bosniaco Dzevad Karahasan. Il mosaico culturale era assai fragile, dunque.
Nel 1992 Sarajevo fu dissanguata anche di un’altra parte della sua linfa vitale. Ad aprile iniziava l’assedio. Cinquecento anni prima gli ebrei sefarditi erano arrivati in città, cacciati dai sovrani di Spagna. Venti giorni dopo la commemorazione dell’esilio, gli ebrei di Sarajevo lasciavano la città. Un’altra parte del capolavoro si sgretolava.

Il fronte dell’acqua, il fronte del fuoco

L’altra immagine che accompagna i miei ricordi della traversata della penisola balcanica si colloca qualche giorno dopo a Mostar, nel cuore dell’Erzegovina verde e blu, tra le rocce aspre e i pendii dolci ricoperti di vigne e frutteti. È quasi mezzogiorno, la folla di turisti si è in gran parte già accomodata ai tavoli dei piccoli ristoranti che si affacciano sul dedalo del centro storico. Sono immersa fino alle ginocchia nell’ acqua della Neretva, guardo verso Stari Most, l’antico ponte simbolo della città. Un giovane muscoloso si sta preparando a lanciarsi da 25 metri d’altezza, la folla applaude e lo incita. Il ragazzo si tuffa. È un’antica tradizione, esiste perfino un Club dei Tuffatori.
Mostar significa “custode del ponte”. La città è tagliata in due, letteralmente incisa, dalla corrente azzurra e silenziosa della Neretva. I ponti sono il collegamento tra le rive, il passaggio, e contemporaneamente i pilastri e il cuore della città. Correva l’anno 1993 quando l’artiglieria croato-bosniaca si accanì su Stari Most fino a farlo crollare: finiva così la centenaria, gloriosa esistenza della creatura di Solimano il Magnifico. Il mondo, intanto, scioccato dalle immagini delle ceneri del ponte che rovinavano nella Neretva (era il 9 novembre) iniziava lentamente ad accorgersi dell’orrore umano e culturale che si stava perpetrando in Europa.
Se ne andava così l’arco di Solimano, l’orgoglio della città erzegovina, la possibilità per i tuffatori di saltare nel blu da quei 25 metri; Mostar nel 1995 somigliava a Dresda dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un altro fronte si era aperto, oltre a quello dell’acqua smeraldina  della Neretva: il fronte fratricida del fuoco croato. È ancora visibile l’altra frattura nell’ architettura cittadina, la frattura degli edifici in rovina, del sangue. A Mostar esistono addirittura ancora due servizi postali diversi, uno croato e uno bosniaco.

La spartizione della  Bosnia è iniziata quaggiù, in questo piccolo e splendente angolo del paese. È iniziata col  crollo di Stari Most, il muro portante di una composizione sempre più precaria.
Ci sarebbero mille altre immagini da citare, per parlare della distruzione morale e culturale  di questo paese, delle moschee e dei cimiteri che non ci sono più, degli esodi forzati. L’Europa fingeva di non vedere e non sapere, l’Italia si consumava nei soliti balletti ideologici tra destra e sinistra. Pochi anni dopo, nel mondo dilagava l’isteria anti-islamica. Ci racconta un artigiano di Sarajevo: “Qualche anno fa andava di moda una maglietta con scritto “Sono musulmano”. Ma per favore, rilassati. L’Islam è la nostra religione, ma gli uomini non sparano e le donne non portano per forza il velo. Dio non guarda le abitudini, guarda nel cuore di ciascuno.” Dio guarderà nel cuore dell’Europa e vedrà il fuoco di una biblioteca e le ceneri di una moschea. Come possiamo ancora parlare di convivenza tra culture, se solo vent’anni fa abbiamo lasciato bruciare tra le fiamme parte delle nostre radici?

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