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JUMP! Salto d’appello: tutto quello che c’è da sapere

Legale oppure no? Certamente temuto e odiato, il salto d’appello è (a detta di alcuni) quello strumento per far andare fuori corso gli studenti, usato da alcuni professori. I quali, dal canto proprio, rivendicano la pratica quale dissuasore del detto “O la va o la spacca”, con conseguenti compiti in più da correggere inutilmente o persone meno che impreparate agli orali. Insomma: meno perdite di tempo.
Un tema sempre sulla bocca degli studenti ma tornato alla ribalta, dopo la mail che alcuni hanno ricevuto nei giorni scorsi. E a complicare la situazione si è aggiunto l’aspetto informatico: chi non volesse sostenere l’esame deve cancellarsi in tempo utile, vale a dire almeno 48 ore prima della prova – sperando di riuscire ad accedere alla propria area riservata, spesso fuori uso per guasti. Che fare in caso di imprevisti quando ormai non è più possibile modificare la propria iscrizione? Sicuramente avvisare il professore, che valuterà poi secondo la propria discrezione se sottoporre lo studente al detestato “balzo”.

Ma cos’è davvero il salto d’appello? Ne abbiamo parlato con Bernardo Caldarola, segretario del Coordinamento per il Diritto allo Studio di Pavia, anche in merito a una proposta avanzata dall’Udu per abrogarlo.

Inchiostro – Iniziamo col fare chiarezza: che cos’è il salto d’appello? Quanto è utile e, soprattutto, per chi (nel caso lo fosse)?
Bernardo Caldarola – Il salto d’appello è il divieto per uno studente di sostenere un esame nell’appello immediatamente successivo a una bocciatura. È utilizzato da alcuni docenti per i motivi più disparati: dalla convinzione, baronale, che questa pratica possa costituire un deterrente per gli studenti a prepararsi inadeguatamente agli esami, alla necessità di tempo per correggere esami scritti sostenuti da un alto numero di studenti, tra un appello e l’altro (gli appelli, generalmente, sono distanziati da una quindicina di giorni, tempo che potrebbe non essere sufficiente per la correzione di centinaia di esami scritti).

Si tratta di una pratica lecita o illecita? C’è un regolamento generale valido oppure varia da facoltà a facoltà?
È una pratica consentita dall’autonomia didattica degli atenei, regolamentata dalla l. 341/1990. Questa legge ne stabilisce la liceità, ma non obbliga i docenti a mettere in pratica il salto d’appello. Il regolamento generale del nostro Ateneo, conformemente alla legge, ne prevede la facoltà. Alcuni dipartimenti ne precludono l’utilizzo, su iniziativa propria; altri non la normano, rimandando quindi al regolamento generale e alla discrezione dei singoli docenti.

Per molti studenti il salto d’appello è solo un impedimento che rallenta il proprio percorso universitario: ci sono proposte per eliminare questo ostacolo?
La proposta che abbiamo fatto agli organi, che costituisce una mediazione tra la nostra posizione (l’eliminazione del salto d’appello) e quella dell’amministrazione di Ateneo, ormai in scadenza, è quella di far decidere alle commissioni paritetiche dei corsi di laurea per quali esami sia praticabile il salto. Riteniamo infatti che una grave insufficienza, imputabile a motivi anche diversi dalla mancanza di studio, non sia un motivo valido per precludere la partecipazione di uno studente a un esame. Il prossimo passaggio, infatti, sarà quello di far decidere alle commissioni in cui siamo rappresentati quali esami rientrino nella categoria di quelli cui il salto può essere applicato, ossia esami scritti cui partecipano centinaia di studenti e che non consentono al docente di fornire i risultati entro l’appello immediatamente successivo. Questo secondo noi è l’unico motivo che può giustificare il salto d’appello. Pertanto, al termine di questo processo di riforma del regolamento generale, molti degli esami – spesso orali – che ora sono afflitti da questo abuso di potere potranno essere sostenuti dagli studenti senza paure e ansie dovute al salto d’appello.

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